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Sono la statua di Giulietta. Mi ha pensata d’oro fino Montecchio, il cuore gonfio per la perdita di Romeo, prometteva al principe scaligero di erigermi perché resistesse il ricordo della mia breve vita. Che durasse «quanto durerà Verona. Nessun’altra memoria sia tenuta in tanto pregio quanto la leale e fedele Giulietta».
Singhiozzava mentre stringeva la mano di Capuleto, mio padre, deciso a edificare per Romeo un busto altrettanto prezioso, vicino a me. In eterno, ripetevano entrambi, padre e suocero, «dormiranno l’uno accanto all’altra fino alla fine dei tempi.»
Tra le lacrime, il signore di Verona stabiliva il verdetto, la giusta sentenza che puniva chi aveva sbagliato e perdonava gli innocenti per così tanti lutti. Romeo e Giulietta, gridò il principe con l’indice alzato in aria, «mai una storia è stata di tanto dolore come questa.»

Io sono nata come promessa di amicizia tra famiglie rivali, in perenne odio per il potere, la ricchezza, la lupa che più divora più ha fame.
Sono nata dalla guerra per celebrare la pace.
Sono l’esempio di quanto il conflitto finisca per dannare chi lo alimenta; il messaggio dell’amore che trionfa, perché vittorioso sull’odio, io che ho amato chi mi era nemico.
Mi hanno innalzata davanti al balcone, come Montecchio aveva promesso. Davanti alla stanza che è stata casa, nido, sposalizio, ultimo tetto dell’amore mio.
Capuleto e Montecchio, tormentati dal senso di colpa, trascinavano i giorni nello sconforto, nell’inedia che logora i passi, nell’accidia che toglie la voglia di vita e svuota il cuore di forza.
Quante sere sono venuti a deporre corone di rose ai miei piedi, pianticelle di gelsomino, vasi di ortensie bianche? Prima Montecchio, poi Capuleto a notte fonda, avvolti dalle tenebre e dalla disperazione.

Sono la statua di Giulietta, non più d’oro da secoli ormai. Mi forgiarono in tempi di pestilenza e penuria, perciò non durai che pochi anni. Appena morirono Montecchio e Capuleto, venni trafugata insieme al busto di Romeo da un gruppo di cittadini affamati. Del mio sposo si spartirono il metallo prezioso, mentre io ebbi altra sorte.

Mi fecero un calco, si presero l’oro fino di Montecchio, quindi mi fusero di nuovo, ma in bronzo.
E così sono rimasta nelle epoche a venire, la stessa posa che si ammira oggi. La mano sinistra sul petto a fermare il cuore che batte forte, lo sguardo malinconico di chi conosce la sua sorte, la tristezza sulle labbra. Sono ricordata per il dolore d’amore, ma io ero gioia. Sono gioia. Giulietta è l’amore che trionfa, amor che muove il Sol e le altre stelle, come scriveva il poeta fiorentino in esilio.
Lo dico con orgoglio: mi sono stati devoti quasi tutti i poeti. L’Alighieri venne tra i primi a raccogliere la mia storia. Cantava l’amore che dà dolcezza al core, perché non aveva dubbi: l’amore salva, è forza, aiuto, fede.
Mi è stato fedele anche il chierico di Arezzo, Petrarca, che cercava manoscritti antichi e a Verona trovò le lettere di Cicerone. Petrarca veniva da me, protetto dalle tenebre, lontano dagli occhi dei curiosi, perché il suo era un amore disperato, sempre in bilico tra l’abbandono e la fuga, desiderio e solitudine. Nessuna tregua al suo dolore, non c’era luogo, piangeva, ch’amor non venga meco et io con lui.
Quanti altri mi hanno dedicato versi, cantando l’amore nelle sue varietà infinite? Lo struggersi per l’abbandono, il gioire della conferma, il disperarsi del tradimento. O l’amore breve, che appena appena ci sfiora, ci rende lieti per un battito di ciglia e poi sparisce, rapido quanto la scia di una cometa. O l’amore maledetto, assurdo, doloroso, che ferisce fin dal primo sguardo, che tormente il cuore in affanni senza quiete. Che colpisce, con la rapidità di un falco, e lascia l’innamorato sfinito a terra a languire, annaspare senza forze, perché insieme desidera e si tormenta.

Sono stata materia dei poeti, è vero. Ma nei secoli sono diventata un’attrazione turistica, una cartolina su cui spedire baci, lo sfondo perfetto per un selfie da social. Le cose cambiano, forse anche i sentimenti.
Oggi sono la statua dell’amore, divinità pagana acclamata in ogni angolo della terra. Mi sono devoti gli innamorati, che ai miei piedi depongono lucchetti con incisi i loro nomi. Scrivono sul muro la frase, la incorniciano con il cuore stilizzato e infine, strusciano la mano sul seno destro: è il rito scaramantico del lieto fine.
Sospiro dentro di me, bloccata nel gesto della statua. Il cuore sta dall’altra parte. L’hanno dimenticato o non ci pensano, intenti come sono a salire sul balcone, unire insieme le due mani, indice con indice e pollice con pollice, fino allo scatto che ferma l’attimo, meglio con il filtro che toglie rughe e occhiaie.
Arrivano a comitive, così numerosi che fanno i turni per entrare al mio cospetto, scalare il piedistallo e strofinarsi al seno destro, che riluccica di riflessi. Impossibile attraversare la via, ho la casa zeppa d’ospiti, pregano in nome mio di trovare l’anima gemella, di conquistare il cuore dell’amato, di consolidare un’unione che duri per sempre.

Li conosco bene gli innamorati.
Da quando mi hanno collocata nel cortile, li studio con attenzione. Molti dureranno poco. Non appena torneranno a casa, avranno già deciso di lasciarsi. Ma è anche questo l’amore. La luce fioca di una candela: si smorza con un refolo di vento.

L’amore mio è stato improvviso quanto un temporale, uragano che squassa, luce abbacinante che acceca. Giro vorticoso sul bordo dell’abisso.
A quattordici anni è stato una forza travolgente. Desiderio che si è acceso con il fulmine: così è accaduto a me, appena m’hanno sfiorato gli occhi di Romeo. Il fuoco è divampato improvviso tanto da bruciare ogni mia fibra. È stato una fiamma che m’ha divorato il fiato.
Anche se la vita mia è stata breve, l’ho vissuto fino in fondo: un amore della durata di una notte, profondo come il mare, come lui infinito.

Ieri sono arrivati due turisti. Avevano l’aria un po’ perduta, come di chi ha sbagliato meta. Lei reggeva la mappa di Verona, lui un libro chiuso sull’indice per tenere il segno. Subito ho pensato che fossero capitati lì davanti un po’ per caso, travolti dalla fiumana della gente, o perché la Casa di Giulietta è tappa d’obbligo a Verona.
Li guardavo: lei che rideva schermandosi la bocca con la mano; lui che sollevava il pollice e le faceva cenni di avvicinarsi a me. I passi incerti, i gesti titubanti, le parole appena accennate.
Lo so che ormai dovrei esserci abituata alle orde di persone che mimano l’amore. Ma questi erano diversi.
Erano avanti con gli anni. Lei una ottantina, lui qualcuno in più. Si tenevano per mano e lui controllava intorno che ogni cosa fosse a posto. Aveva la cautela di chi muove i cristalli, l’attenzione prudente per la porcellana preziosa.
Forse è stato vedere le loro dita intrecciate, o i cenni del viso che erano intesa, lo sguardo perduto di lui che la guardava, uno sguardo che riconosceva la ragazzina di sedici anni, la vedeva come l’avesse appena conosciuta: non so cosa sia stato. Avevo gli occhi colmi di lacrime.
Forse sono io che mi lascio andare a sdolcinatezze, per via di secoli di versi d’amore. Che storia è questa che dura sessant’anni? Che arriva ai miei piedi ancora piena del timore di chi scopre l’amore per la prima volta?
Li ho osservati meglio e li ho visti alzarsi la mattina stanchi e assonnati, con l’umore di chi vorrebbe scapparsene lontano, invece lui preparava il caffè, lei gli passava un biscotto, gli sistemava la camicia, mentre lui le aggiustava la frangia con le dita.
E poi guardarsi senza aprire bocca, solo un abbraccio e un bacio veloce sulle labbra. E la sera, ritrovarsi insieme per il tempo breve della cena. Un poco di vino, un poco di formaggio stagionato, l’uva per finire con dolcezza. Lo stesso bacio lieve prima di chiudere gli occhi, appoggiare il viso tra la spalla e il collo, e restare fermi ad ascoltare i propri corpi, affaticati, stanchi. Ma ancora uniti, ancora insieme.
Li ho visti proseguire ogni giorno, la sfida dello starsi accanto, nonostante le giornate siano a volte uguali, spesso faticose.
Li ho scoperti scagliarsi addosso le peggiori parole, gridarsi contro cattiverie per poi lanciarle lontano e dimenticare tutto. Leccarsi le ferite per ripartire da capo. Dirsi muti: “siamo qui, io e te, teniamoci allacciati prima che ci inghiottano le stagioni, il lavoro ci sfinisca le forze, la vita nostra arrivi alla fine.”
Ho guardato scorrere i loro sessant’anni, le feste comandate, gli anniversari. Le sfide dello stare insieme, lottare per restare uniti. E io Giulietta ho provato invidia e rimpianto dell’amore di ogni giorno, io sposa fedele dal tramonto al canto dell’allodola. Di quell’amore che va avanti non appena si chiude il sipario del E vissero felici e contenti delle favole. Quello che rimane quando si spengono le luci, il pubblico se n’è andato, si torna a casa.
L’amore che è la scelta di ogni risveglio, la conferma di ogni notte. La quiete sempre accesa.




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