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Luned 24 Febbraio 2025
Ancora, sul restauro del dipinto, dedicato a San Cristoforo, di Louis Dorigny (1654-1742), custodito, nella chiesa di Sant’Eufemia, Verona. Ulteriori, importanti chiarimenti, fornitici dalla dottoressa Cristiana Beghini, direttrice, dell’Ufficio per i Ben

Siamo lieti di proporre quanto segue, a totale completamento del nostro semplice annuncio dell’avvenimento, in tema, pubblicato il 24 febbraio, ossia, della presentazione della restaurata tela “San Cristoforo”, del francese pittore Louis Dorigny, veronese d’adozione, da lui realizzato, nel 1694. Ringraziamo, per quanto, in merito, la dottoressa Cristiana Beghini, direttrice dell’Ufficio per i Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi di Verona, ci propone, anche perché a chi d’arte s’interessa, venire a conoscenza di esatti dettagli e di particolarità, è il meglio che possa accadere. Inoltre, l’occasione ci permette di pubblicamente dimostrare la nostra gratitudine, a Chi, con passione e alto impegno, si dedica alla cura delle chiese veronesi, veri musei, e a quanto di straordinariamente artistico è in tali templi conservato, non solo a testimonianza di grande fede del passato, ma, al tempo, pure, di Arte, come eccezionale patrimonio culturale. Il comunicato: “I progetti di restauro sono occasioni di salvaguardia, di conoscenza e di valorizzazione. È su questo orizzonte, che si colloca il progetto dell’Associazione Chiese Vive – “I care, ci tengo” – che mira a coinvolgere e a sensibilizzare i cittadini nell’importante opera di conservazione del Tesoro di Bellezza, custodito, nella Diocesi di Verona, anche attraverso la presentazione dei restauri, finanziati dalla stessa Associazione, come quello rivolto recentemente alla parrocchia di Sant’Eufemia. In questa chiesa, sabato 22 febbraio, si è tenuta la presentazione del restauro di un dipinto notevole, anche per qualità formale, nel panorama dell’immenso patrimonio ecclesiastico veronese, di certo, per il XVII secolo. Si tratta della monumentale tela, realizzata nel 1694, da Louis Dorigny, con un gigantesco San Cristoforo, che regge sulla spalla Gesù Bambino, collocata su un altare della parete sinistra (350x180 cm) del tempio. A questo pittore della corte francese, nato a Parigi nel 1654 e morto a Verona nel 1742, si era rivolta la Compagnia degli Osti, nel desiderio di ornare, con una pala, il proprio altare, già in controfacciata a destra dell’ingresso della chiesa: protagonisti dell’operazione furono Natale e Giuseppe Ruffoni, appartenenti a una famiglia originaria della Valtellina e membri di tale compagnia, come confermano lo stemma e l’iscrizione visibili, sul margine destro della tela. La presentazione dei risultati di questo restauro ha previsto i saluti di don Roberto Defanti, parroco di Sant’Eufemia, di mons. Giovanni Ballarini, presidente dell’Associazione Chiese Vive (che quest’anno compie 30 anni di attività, 1995-2025), di Letizia Tasso, funzionaria storica dell’arte della Soprintendenza archeologia, Belle arti e Paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza, e di Marta Ugolini, assessora del Comune di Verona per Cultura, Turismo e rapporti con l'Unesco. Sono seguiti due approfondimenti: sulla storia del dipinto, con Mattia Vinco, professore associato di Storia dell’arte moderna all’Università di Trento, e sull’intervento conservativo, con la restauratrice della ditta Cristani Pierpaolo snc, Francesca Amati. Ha moderato l’incontro Cristiana Beghini, direttrice dell’Ufficio per i Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi veronese. La relazione del prof. Vinco, sul tema: ‘Il San Cristoforo di Dorigny per la Compagnia degli Osti, in Sant’Eufemia, e i suoi committenti’: I restauri, si sa, sono necessari per salvare le opere d’arte dal trascorrere del tempo, ma talvolta hanno anche il merito di rivelare nuove e inaspettate informazioni storiche. È stato questo il caso della monumentale pala, raffigurante “San Cristoforo”, del pittore francese Louis Dorigny, conservata sul quinto altare a sinistra della chiesa Sant’Eufemia. Grazie a questo recente intervento, è stato così possibile integrare e confermare gli indizi emersi durante il restauro del 1994, realizzato da Mattea Legnaghi, e resi noti da Fabrizio Pietropoli, nel catalogo della mostra Louis Dorigny 1654-1742. Un pittore della corte francese a Verona, che si tenne, al Museo di Castelvecchio, nel 2003. In quell’occasione, Pietropoli dava conto di un’iscrizione e di uno stemma visibili in una riflettografia, di cui riusciva a trascrivere solo la data 1694. Ora quella scritta, alla destra del Santo, è diventata ben leggibile anche a occhio nudo e recita: «NADAL E GIOSEP[PE]/ FRATELLI RUFFO[NI]/ VERONESI/ FECERO FARE PE[R]/ LORO DIVOTION[E]/ [...] / 1694». Non meno sorprendente è stata però l’identificazione dello stemma dei fratelli Natale e Giuseppe Ruffoni, al di sopra dei loro nomi, catalogato da Eugenio Morando di Custoza (1976), come «partito d’argento e di rosso, alla colonna coronata d’oro sulla partizione, terrazzata di verde e sostenuta da due grifoni al naturale, coronati d’oro». Le differenze, rispetto a questa descrizione araldica, sono minime, e quanto si può vedere oggi corrisponde quasi completamente, al netto di possibili alterazioni cromatiche (il verde della zona inferiore virato in un colore scuro) e di alcuni dettagli, forse perduti (le corone sui due grifoni). Veniamo così a fare la conoscenza di due membri della famiglia Ruffoni, originaria della Valtellina, il cui cognome originario era, però, Sassi, omonimo di un’altra famiglia, documentata a Verona fin dal 1279, come ci tramanda Antonio Cartolari (1854). Va ricordato però che, in origine, questa pala non si trovava nella collocazione attuale ma in controfacciata, a destra dell’ingresso, sull’antico altare della Compagnia degli Osti, fondata nel 1623, dove la vide Bartolomeo Dal Pozzo (1718). Committente della tela di Dorigny – documentato a Verona nel marzo del 1693 – fu Natale Ruffoni, eletto gastaldo dal 1689 al 1693, e subito dopo massaro, ovvero amministratore della compagnia, di cui faceva parte anche il fratello Giuseppe, che nella vicenda giocò certamente un ruolo secondario. A quella circostanza è da ricondurre con tutta probabilità anche la commissione delle due tele, purtroppo perdute, viste da Giovan Battista Lanceni (1720) e raffiguranti un “San Cristoforo davanti al tiranno” di Lorenzo Voltolini, e il “Martirio di San Cristoforo” del poco noto Giovanni Marchi, che andavano a comporre un vero e proprio ciclo dedicato al santo. Dell’arredo tardo-seicentesco della cappella facevano parte anche uno scabello – ovvero un baldacchino processionale – e una statua raffigurante “San Cristoforo”, con il suo piedistallo, commissionati nel 1687, mentre, al 1692, risale la decisione di costruire un banco in noce. Sappiamo, inoltre, che la scultura del Santo patrono degli osti, realizzata dal carneade Sgualdo Rizzi, non riscosse il gradimento della compagnia e venne sostituita nel 1690, con quella tuttora conservata nei depositi della chiesa di Sant’Eufemia e attualmente in restauro, che giganteggiava sull’altare, prima della commissione delle tre tele”. Quanto al re stauro conservativo, il comunicato ci propone altri dati chiarificatori, a cura di Francesca Amati: ”Si tratta di un dipinto, su un supporto tessile in canapa, costituito da più pezze, unite tra loro da cuciture. La pittura è stata eseguita per sovrapposizione con percentuali di legante differenti, che rendono la pellicola pittorica, a tratti, più opaca e trasparente, e, in altri, spessa e brillante. L’artista realizzò, per primo, il cielo, con ampie pennellate veloci, passando poi al terreno sassoso e, infine, alle figure, condotte con corposi tratti coprenti. La sua storia conservativa è complessa: le lacerazioni, i tagli e le molteplici lacune di varie dimensioni sono state causate da danni accidentali e dall’incuria prestata nel tempo. Vi erano, inoltre, pesanti ridipinture di restauri antichi: per intervenire, su quella, che nascondeva l’iscrizione e lo stemma dei fratelli Ruffoni, si è proceduto anche con indagini fotografiche, non invasive, eseguite da Riccardo Furgoni (Istituti Santa Paola di Mantova). L’intervento si è concentrato sulla superficie pittorica, con l’obbiettivo di recuperarne il più possibile la cromia originale. Inoltre, per poter migliorare la planarità di tagli e lacerazioni, e non potendo lavorare sul retro, l’opera è stata posizionata in tavola, a bassa pressione. Una volta rimontata la tela sul telaio, le mancanze, stuccate con materiali diversi, sono state ripulite a bisturi e risarcite con uno stucco di gesso e colla. La reintegrazione pittorica è stata condotta, principalmente, ad acquerello, mentre, alterazioni superficiali o parti dove l’affiorare della preparazione rossa poteva causare disturbi estetici, sono stati ritoccati con colori a vernice”. Grande lavoro, che ha fatto rivivere una grande opera, la quale, come, sopra, da noi, appena accennato, nei dettagli offerti dal prof. Vinco e dalla restauratrice Amati, ci ha rivelato particolari straordinari. Nella foto: L’opera del Dorigny, a restauro effettuato.
Pierantonio Braggio






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