Hammershøi che ispirò il cinema da Dreyer a W. Allen, al Roverella
Al Roverella, la grande retrospettiva che la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo ha voluto dedicare a “Vilhelm Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia”, a cura di Paolo Bolpagni,
sta affascinando e conquistando il pubblico. A colpire i visitatori è il sottile potentissimo fascino di questo artista nordico, l’intensità dei suoi ritratti, che sono anche, e spesso, ritratti di cose e di interni, oltre che di persone. “Ritratti” perché i luoghi, le stanze, gli scorci domestici trasmettono una precisa identità. Sono visioni che posseggono un’anima. Come le persone, di cui Hammershøi cela il volto, preferendo ritrarle di spalle.
Questa, che è la prima mostra italiana sul maestro nordico, è la rivelazione di un artista ammirato nei grandi musei del mondo ma che in Italia non è mai stato oggetto di una mostra. Solo pochissime sue opere si sono potute ammirare in esposizioni dedicate alla pittura nordica. La retrospettiva al Roverella – sino al 29 giugno – consente, finalmente, di scoprire un genio della pittura che fa del silenzio, del vuoto, un racconto intenso.
“La fama di Vilhelm Hammershøi, dopo la sua scomparsa nel 1916, diminuì rapidamente, quasi al limite dell’oblio, che durerà fino agli anni Ottanta”, sottolinea il curatore della mostra rodigina, Paolo Bolpagni. “Non si dimenticò di lui, tuttavia, il mondo del cinema: basti pensare a certi lungometraggi dello svedese Ingmar Bergman, o a Interiors (1978) di Woody Allen. In particolare, però, fu un grande regista danese, Carl Theodor Dreyer (Copenaghen, 1889-1968), a ispirarsi in maniera esplicita a Hammershøi nei propri film, dall’epoca del muto sino al suo ultimo capolavoro, Gertrud (1964), girato quasi interamente in interni, e incentrato sul tema dell’impossibilità dell’amore autentico e dell’incomunicabilità fra i personaggi, chiusi in un universo bloccato, nel quale la vita è come un lungo sogno.
In molte delle proprie inquadrature, da Il presidente (1919) all’Angelo del focolare (1925), da Vampyr (1932) a Dies irae (1943), da Ordet (1955) sino appunto all’ultimo suo film, Dreyer, vincitore del Leone d’oro alla Mostra internazionale del cinema di Venezia del 1955, ricrea le scene domestiche e lo spirito per così dire “metafisico” dei dipinti di Hammershøi. Alcuni ambienti, specie nel finale di Gertrud, con la porta bianca che si chiude dopo il saluto di commiato della protagonista, disillusa dalla vita e raccolta in una quieta rassegnazione, sembrano citazioni di opere del pittore danese”.
Nella mostra di Palazzo Roverella a Rovigo, perciò, intercalati al percorso espositivo sono inserite due proiezioni di alcuni spezzoni proprio di Gertrud, allo scopo di rendere immediato e suggestivo il confronto tra il film di Dreyer e l’arte di Hammershøi. Insomma, mentre la critica si era scordata della sua grandezza, il regista conterraneo continuò a trovare in lui un modello e una fonte d’ispirazione, sia nella costruzione delle inquadrature, sia nel delineare atmosfere sottilmente angosciose e sospese nel loro apparente ordine.